Descrizione Opera / Biografia
Tornare ad essere uno nasce da una giornata d’autunno trascorsa in riva al mare, quel mare che ho abbandonato tre anni fa e a cui ho fatto ritorno, per un breve periodo, in solitudine; quel mare che è diventato uno specchio indelebile pronto a restituirmi dei ricordi che sto provando a mettere da parte, da parecchi mesi ormai. Quel mare che avevo imparato ad assaporare al tuo fianco, adesso, lo rivivo da sola per la prima volta dopo tanto tempo. Rottura, separazione, ritorno fisico a se stessi: sono questi i tre capisaldi del progetto. Fin dall’infanzia tendiamo a non bastarci, la solitudine del nostro corpo è insufficiente a farci stare bene e propendiamo a colmare questa carenza andando alla ricerca di un altro corpo che ci completi, che diventi quella casa che da soli non riusciamo ad abitare. E se da bambini identifichiamo quel corpo con la madre, crescendo lo ricerchiamo in qualcun altro.Quando si vive per un lungo periodo con un’altra persona, quando ci si accompagna per lungo tempo durante il corso dell’esistenza, quando per anni si continua ad abbracciare lo stesso corpo, si diventa inevitabilmente casa reciproca. Con il trascorrere degli anni si impara a conoscere il corpo dell’altro, lo si conosce talmente bene da sapere individuare ad occhi chiusi ogni minimo dettaglio dell’altro, ogni minimo difetto, allo stesso modo in cui riusciremmo a percorrere al buio casa nostra senza inciampare in nulla perché ormai, dopo anni, abbiamo imparato ad evitare ogni ostacolo. E quel corpo ci è talmente familiare da essere diventato quasi un’estensione del nostro: abbracciarsi la sera, mentre si va a dormire, è un gesto spontaneo, irrinunciabile, senza il quale ci sentiremmo incompleti; sentire il corpo dell’altro e farlo proprio ci induce a non considerarci più come una singola persona: si diventa due in un unico corpo.Le tue braccia sono le mie braccia, le tue mani sono le mie mani, la tua schiena diventa la mia schiena, i tuoi nei si trasferiscono sulla mia pelle. Siamo due, ma siamo uno, tu nel mio corpo ed io nel tuo.Nel momento inevitabile in cui ci si separa, ci si abbandona, ci si allontana per non ricongiungersi più, si passa attraverso una fase di ricognizione fisica di se stessi: la rottura è principalmente una questione fisica, le difficoltà ad affrontarla e l’incapacità apparente di superarla dipendono dal dover rinunciare a quella ormai consolidata dipendenza corporea che si era creata.Quando ti tenevo per mano era come se tenessi la mia mano, ma adesso che non ci sei più, e tengo davvero soltanto la mia mano, è come se non avessi più mani, come se me le avessero amputate. Il primo pensiero che mi tornerà in mente, quando la nostalgia prenderà il sopravvento, non riguarderà tanto la nostra connessione mentale, ma quella fisica: ricorderò l’abbraccio che ero solita darti tutte le volte che uscivi dalla doccia, ricorderò la tua schiena curva, le tue spalle piccole e basse, i tuoi fianchi morbidi, il tuo collo lungo e mi sembrerà strano non sentirli più sotto le mie mani, finché inesorabilmente arriverò a dimenticare quanto era curva la tua schiena, quanto erano piccole e basse le tue spalle; non ricorderò più la morbidezza dei tuoi fianchi o quanto era lungo il tuo collo.La separazione è una questione fisica prima che emotiva e per tornare ad essere uno bisogna prima farsi metà, recidersi, lasciar passare il tempo per accettare la solitudine del proprio corpo, per ritornare ad avere delle mani proprie, per ritornare a sentire profondamente il proprio corpo in quanto unico. Citando un’immagine di Gordon Matta-Clark, è come tagliare letteralmente la propria casa a metà e viverci dentro per poi ricucirla dall’interno, pian piano e in solitudine.Ritornare a se stessi, dopo che si è stati qualcun altro per molto tempo, non è cosa semplice e molto spesso ci si sente incapaci di vivere all’interno del proprio corpo, di farsi casa, e si rinnegano quelle fattezze che di per sé non bastano. Il nostro corpo, che ci ha accompagnato per tutta la vita, diventa una vera e propria maledizione: si era plasmato velocemente per accogliere l’altro, aveva adattato le proprie forme per farsi riparo di un altro essere, ma adesso non riesce altrettanto velocemente a ritornare ad essere il mio unico rifugio. E lo malediciamo, allo stesso modo in cui malediciamo le porte, quelle porte che ci hanno permesso di entrare facilmente nella vita altrui e di lasciare entrare qualcun altro nella nostra esistenza. Quella porta aperta ci ha permesso di entrare ma anche di uscire e lasciar uscire. Le porte sono perfide, le case sono perfide perché dotate di porte. Heimtücke, come ci insegna Vilem Flusser, è la parola perfetta per descrivere la crudeltà insita nell’abitazione: è la traduzione tedesca di perfidia che contiene in sé la parola casa (heim).Dobbiamo sempre ricordarci, però, che quegli spilli che abbiamo infilzato nel nostro corpo per maledirlo, prima o poi, finiremo con l’estrarli uno ad uno, con grande fatica ed immenso dolore, ma riusciremo a recuperare la nostra consapevolezza fisica e saremo nuovamente pronti a farci casa per qualcun altro e a tornare ad essere due.Diventeremo due sconosciute che si conosceranno per sempre e non ritorneremo mai più in quella che era casa nostra, ma ricorderemo fino alla fine di esserci amate e di aver avuto il coraggio di dirci addio prima di ridurci in polvere. (Taormina, 1993) Dopo un percorso di studi quinquennale di carattere umanistico, Emanuela Bucceri si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Catania, corso Arti Tecnologiche, dove si laurea nel 2016. Nel 2019 si laurea in fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Attualmente vive a Milano. Ha partecipato a diverse mostre collettive: nel 2017 prende parte alla mostra Take me (I’m yours) curata da Danilo Eccher e ideata da Christian Boltanski; nel 2018 partecipa a Fotografia Europea all’interno del progetto diciottoventicinque curato da Davide Tranchina.