SPOTLIGHT - PREMIO COMBAT PRIZE 2012

Ecco la nuovissima rubrica Spotlight che arricchisce l’offerta del PREMIO COMBAT PRIZE, aprendo un ciclo di approfondimenti sul mondo dell’arte contemporanea e i suoi protagonisti, con interviste e riflessioni sui contesti e le relazioni che la compongono.
In questa prima uscita parlano i vincitori dell’ultima edizione del PREMIO COMBAT PRIZE 2012 intervistati da Angela Madesani, Francesca Baboni, Laura Barreca e Martina Cavallarin.

Bo Christian Larsson "The Destroyer"
Francesca Baboni - L'opera vincitrice del Premio Combat racchiude in se tutte le tematiche della tua visione artistica e poetica, che si ritrovano nel tuo lavoro molto composito. Tu difatti lavori non solo con la pittura e il disegno ma anche con la performance poi tradotta in video, frame fotografici e l'installazione. La forza della natura, ciò che sfugge al controllo umano, la vita e la morte. Tematiche anche molto legate ad una cultura specificatamente nordeuropea. Me ne puoi parlare?
Bo Larsson - Credo sia accurato dire che le tematiche nel mio lavoro sono in stretto contatto e corrispondono bene con la cultura del nord Europa, o ancora meglio con la realtà scandinava, dove sono nato. Il mio rapporto con una natura così aspra e bella è quindi sempre stato fortemente istintivo e molto attento rispetto al paesaggio urbano. In natura, le forme si vedono chiaramente morire o essere in continuo divenire, all'opposto di ciò che avviene in una città, dove ciò che muore è nascosto o portato via. Questo lo sento sbagliato, poiché crea una maggiore distanza tra la vita e la morte. Sono inoltre pesantemente influenzato da tutti i tipi di storie classiche e cliché. Penso che l'uso commovente e proibito di simboli ordinari sia il miglior modo di trasmettere un messaggio, qualsiasi cosa tu stia cercando di dire. E' come parlare a grandi discorsi, le parole si perdono anche se il pensiero è chiaro. La visione più intima è sempre stato il punto di partenza più importante di tutti i miei lavori e in questo senso i dipinti e i disegni possono esser visti come una sorta di mappa. Uso dipinti e disegni come base nel mio processo creativo e da lì sviluppo la parte concettuale- in performance, happening, sculture, video e istallazioni per esempio. Più mi allontano dalla linea intuitiva disegnata e più il lavoro diventa concettuale. Vedo l'intero processo come una sorta di rituale, più che come una routine, dove tempo e luogo non importano molto.
F.B. - Quali sono i tuoi programmi e nuovi progetti per il futuro?
B.L. - Al momento sto preparando alcuni nuovi show e progetti più grandi, sia in spazi commerciali che istituzionali, per la maggior parte in Svezia, Danimarca e Germania.
F.B. - Hai lavorato quasi solo all'estero anche in musei istituzionali molto importanti oltre che in gallerie private, pensi di venire in Italia prossimamente? Come vedi la scena artistica italiana?
B.L. - Mi piacerebbe lavorare in Italia e spero di avere quest'opportunità molto presto. Non sono molto informato sulla scena artistica italiana sfortunatamente, ma l’Arte Povera mi ha sicuramente influenzato molto, specialmente i lavori di Janis Kounellis e Piero Manzoni, l'ultimo lavoro "socle du monde" è il punto di partenza per una biennale con lo stesso titolo alla quale sto partecipando. È all'Herning Museum of Contemporary Art in Danimarca e inizierà a Settembre. Quindi questa è la connessione più stretta che riesco a trovare con il mondo dell'arte italiana al momento, escluso il fantastico onore di vincere il PREMIO COMBAT PRIZE nella sezione pittura.

Giovanni Mantovani "Mind the gap"
Angela Madesani - Puoi parlarci del tuo lavoro, vincitore del Premio Combat Prize. Puoi spiegarci come si inserisce all'interno del tuo percorso.
Giovanni Mantovani - "Mind the gap" è una frase familiare per i fruitori della metropolitana di Londra: fu introdotta per allertare i passeggeri dello spazio che si viene a creare tra la banchina e la porta del treno. L'omonimo progetto trae ispirazione da un soggiorno nella capitale inglese e dalle immagini presenti in una delle tante bancarelle dell'usato: in cui alcune fotografie, nel corso di una giornata particolarmente assolata, si mostravano rendendosi quasi trasparenti. Nel corso di questa visione sono emersi dei segni grafici che hanno attratto la mia attenzione divenendo la discriminante del loro acquisto. Attraverso il mio intervento cerco di salvare dall'oblio queste immagini, fotografandole le tolgo dall'imbarazzo della scomparsa, donandogli una nuova vita e una nuova visione. Considero le immagini trovate nelle bancarelle, oggetti che hanno perso ogni significato affettivo, diventando un contenitore vuoto pronto per essere trasformato. Il lavoro precedente, Lavagne (2010), parte dallo stesso presupposto. Una lavagna appesa al muro cattura il mio sguardo. Di fronte a questo schermo nero rivedo i segni che la maestra tracciava per farci conoscere il mondo. Consapevole dell'oblio che incombe su di essa, decido di trasformare quell'oggetto, attraverso la macchina fotografica, in immagine. Questo passaggio mi permette di renderla incancellabile con la possibilità di collocarla in altri ambienti confondendola con il circostante. L'immagine ritorna oggetto risvegliando la cognizione dello sguardo.
A.M. - Il formato della tua fotografia, piccolo, in chiara controtendenza con certo gigantismo alla moda, ha colpito molti di coloro che sono venuti a vedere la mostra, puoi parlarci di questa scelta?
G.M. - Nel lavoro presentato al Premio Combat (Mind the Gap) la scelta di una dimensione contenuta è emersa nel momento stesso in cui è nato il progetto. L'immagine, che fa parte di un progetto più ampio è stata cercata e trovata nei mercatini dell'usato londinese proprio per le sue dimensioni. Le fotografie appartengono agli album di famiglia di persone sconosciute che ci raccontano istanti qualsiasi della loro vita intima e personale. La ricerca elaborata per questo progetto scaturisce dalla citazione di Aby Warburg: Dio è nel particolare. Gli oggetti piccoli, che rappresentano frammenti di reale, hanno da sempre attirato la mia attenzione per la loro capacità di aprire squarci nella quotidianità nei quali è possibile sorprendere la prosa del mondo. Questo studio è iniziato quando vidi per la prima volta La Passione di Giovanna d'Arco del regista danese Carl Theodor Dreyer, in cui in due distinte inquadrature una mosca si posa e zampetta sul volto dell'attrice Renée Falconetti che interpreta la protagonista Giovanna d'Arco. In quel preciso istante una cosa piccola e insignificante, che proviene da un fuori-campo ignoto e incontrollabile, appare sulla scena e stravolge lo spazio filmico aprendo a una terza dimensione. Queste sono le cose piccole che mi distraggono, nel senso che distolgono l'attenzione da ciò che dovrebbe attrarre in modo da impadronirsi del nostro sguardo rilanciando l'apertura di senso. La scelta di presentare questo lavoro è in relazione, quindi, alla necessità di spostare lo sguardo verso quei piccoli "squarci" che si creano nella realtà e che attraversandoli è possibile farsi travolgere dal contingente dal inaspettato.Per me questi piccoli oggetti rappresentano il punctum, tanto per citare Roland Barthes, in cui è possibile percepire l'incanto infra-sottile che si cela tra le pieghe della realtà. In fondo è come giocare a “caccia al tesoro”: ci sono degli indizi, cerchi di decifrarli e se sei fortunato trovi il tesoro.
A.M. - Hai lavorato sul senso stesso della fotografia, come registrazione, traccia. Un lavoro che parte sicuramente dall'immagine analogica. Possiamo parlarne?
G.M. - L'originale è un'immagine analogica (reca una datazione: 1945) un semplice oggetto sul quale è registrato un momento speciale di una famiglia. Certamente è una traccia di un passato che ha la forza di ripresentarsi a noi. Questo lavoro indaga il senso stesso della fotografia ovvero la capacità della luce di essere il mezzo fondante attraverso il quale l'immagine latente della realtà prende forma e si fa tangibile trasmettendoci l'invisibile. In questo senso l'immagine è analogica perché mantiene un legame iniziale con un referente materiale. Da un punto di vista metodologico ho retro-illuminato l'immagine mediante una lavagna luminosa e in seguito ho realizzato lo scatto, l'immagine originale si è trasformata facendo affiorare un'immagine potenziale che solo con la luce si rende evidente. Un'immagine nuova si è generata attraverso la luce. Se le immagini di famiglia rappresentano un ricordo, l'immagine abbandonata diventa il luogo della memoria (registrazione oggettiva di qualcosa che è esistito) senza nessuna implicazione di carattere emotivo. La mia intenzione è stata quella di ridargli una nuova veste attraverso la quale il ricordo potesse riaffiorare. Forse queste immagini trovate non aspettavano altro che essere raccolte per ritrovare il loro stato di ricordo. Nel mio lavoro è di fondamentale importanza il referente perché attraverso di esso si può generare una nuova immagine, fedele al principio di conservazione dell'energia in cui nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma.

Radenko Milak "Bordello of Warriors (Sarajevo 1993)"
Laura Barreca - Nei tuoi lavori l’attenzione è incentrata sulla rappresentazione di atti violenti, scene di guerriglia, in cui scegli il bianco e nero proprio con l’intenzione di riportare attenzione sulla crudeltà della storia e dei suoi eventi. In che modo la tua esperienza personale e la storia recente del tuo paese hanno contribuito a costruire l’identità del tuo lavoro?
Radenko Milak - Noi viviamo in una società totalmente e radicalmente divisa. Le persone sono generalmente divise su tematiche come il passato recente. Questo, in particolare per me e i miei quadri e disegni, è molto importante. In realtà l' arte e' solo un fantastico strumento per rapportarsi/avere a che fare con il passato. So una cosa,che quando vogliamo pensare e costruire il futuro,usiamo sempre frammenti del passato. Nella nostra società in Bosnia,in Herzegovina e nei Balcani in generale stiamo attualmente provando a pensare al futuro, ma non possiamo vedere il futuro perché il passato e' sempre molto dominante nello spazio pubblico. Questo è un motivo per cui uso spesso fotografia documentaristica e foto-giornalismo di guerra come punto di partenza per i quadri e per la ricerca in generale. Nelle mie opere sono quindi influenzato principalmente dalla fotografia, cosí come le rappresentazioni di guerra nel foto-giornalismo. E' stato giustamente osservato come la violenza, la guerriglia e il conflitto siano punti significativi delle mie opere, ma sono il contesto politico, il passato recente del paese ad avere una rilevanza davvero importante nel creare l’identità delle opere. Per me e la mia generazione la domanda fondamentale è: cosa rappresenta per noi il futuro e come possiamo in esso riflettere il nostro passato.
L.B. - Nel 2005, con un gruppo di artisti hai fondato un centro d’arte contemporanea. Nella ricostruzione dell’identità e della storia di un luogo quanto incide il valore sociale di un artista?
R.M. - Abbiamo fondato Protok, Centar for Visual Comunication, a Banja Luka nel 2005, come gruppo di giovani ed entusiasti artisti. Abbiamo avuto l'idea di creare una piattaforma per riflessioni critiche sulla società e sulla situazione politica, usando l'arte contemporanea come strumento per la creazione di un pensiero critico e di comportamenti sociali. La nostra visione è di creare un'aura di arte critica in grado di aprire un dialogo con la comunità. Il risultato del nostro lavoro è stata la creazione della Biennal of Contemporary Art, SpaPort nel 2008, mostra che ha coinvolto numerosi artisti e curatori internazionali. Adesso stiamo lavorando su un nuovo modello di indagine per le attività che seguiranno, tra le quali la creazione di un network per produrre nuove connessioni interculturali.
L.B. - La scelta dei soggetti e la capacità di “analisi storiografica” sono una scelta precisa. Ci parli dell’opera che hai presentato al PREMIO COMBAT PRIZE 2012?
R.M. - Il disegno che ho presentato al PREMIO COMBAT PRIZE 2012 e' parte di una serie di disegni basati sulla guerra in Bosnia del 1992-1995. Anche se il PREMIO COMBAT PRIZE prevede la scelta di una singola opera per ogni artista, per me è alquanto difficile parlare di un disegno singolarmente, infatti ho sempre pensato di presentare i disegni come installazioni murali, dove diversi disegni rappresentano un’unica composizione.
Come ho già detto, il mio lavoro e' sempre basato sulla fotografie documentaristiche o articoli di giornali, poiché credo che la ricostruzione vada fatta a partire da immagini e nozioni comuni che si trovano dentro di noi tanto quanto negli altri. La mia è una riflessione incentrata sull’identità individuale e la storia collettiva, sulla sua capacità di generare fascino e minaccia, legittimazione e conflitto, oggettivandosi e traducendosi nella sua alienazione. Per far comprendere appieno la mia ricerca, spero di avere l'opportunità di esporre il prossimo anno a Livorno, mostrando più cose di me, dei miei disegni e dei miei quadri.

Francesca Cirilli "What new perspectives_Delhi"
Martina Cavallarin - Per poter procedere nelle derive del contemporaneo a mio avviso l'artista deve imparare ad essere mutante e procedere lungo 4 punti fondamentali: un forte retaggio culturale - il dimenticare a memoria per avere l'energetica genuinità del suo tempo - avere un'ossessione - sapere esprimere tale ossessione mediante un'opera potente, che sappia comunicare necessità e pensiero. Tu Francesca vieni da una laurea in storia contemporanea e questo lo riconosco nel tuo lavoro.
Francesca Cirilli - Si, effettivamente, il mio percorso formativo influenza molto il mio lavoro, per quanto riguarda l'approccio, le tematiche e le riflessioni su cui spesso ruotano i miei progetti. Come accennavi, prima di prendere un diploma in fotografia allo IED di Torino, mi sono laureata in Storia Contemporanea all'Università di Pisa ed ho effettuato anche un paio di anni di studi in Scienze Naturali. Un percorso che devo ammettere a tratti essere stato un po' sconnesso o "tortuoso", ma dal quale, a posteriori, mi sembra che stia progressivamente amalgamandosi un buon miscuglio. La mia fotografia affonda quindi le sue radici nel percorso di studentessa di Storia Contemporanea e di Economia Politica (ambito in cui ho svolto la mia tesi di laurea) alla facoltà di Lettere e Filosofia, nei miei studi e nel mio amore per la natura, e non per ultimo, nel mio bagaglio di conoscenze di fotografia e storia dell'arte. Il tutto, mescolato con le esperienze di vita e con l'immediatezza d'idee, visioni e sensazioni che questa mi propone. I miei interessi si sono sviluppati nel tempo, di pari passo alle mie conoscenze, con essi sono cresciute le riflessioni e le preoccupazioni, l'urgenza e l'ossessione in relazione alle emergenze sociali ed ambientali (quasi sempre connesse tra loro) che stiamo vivendo; cerco di osservarne ed analizzarne i meccanismi, un occhio al passato ed uno al futuro, riflettendo da dove vengono e perché, e soprattutto dove potranno portarci. Il mio interesse si concentra sulle manifestazioni degli squilibri e degli stridori che cerco di rappresentare attraverso un approccio a volte documentario, a volte più metaforico o simbolico.
M.C. - Francesca t'interessa costruire un'indagine sulla collettività. La tua foto può essere anche parte di un'arte relazionale e sociale in qualche modo.
F.C. - Le mie riflessioni sono spesso orientate al mondo esterno, cerco di osservare come un determinato contesto sociale, ambientale ed economico si rifletta sulle persone, su come lo spazio ed i luoghi si modellino e siano modellati in base ai nostri modi di vivere, di abitare, di relazionarci con un intorno e con gli altri esseri viventi. In questo senso le relazioni e il sociale s'inseriscono nel mio lavoro. Ma soprattutto, e forse nel senso più stretto della definizione di arte relazionale o sociale, il mio lavoro, in quanto fotografa, implica la presenza fisica, il coinvolgimento diretto della mia persona nei luoghi e nelle situazioni, implica lo stabilire relazioni, contatti e confronti con altre persone, che a volte vivono vite anche molto diverse dalla mia. Indubbiamente, al di là degli intenti e dei messaggi, delle visioni o degli stimoli di riflessione che vorrei trasmettere, la parte di socialità e di relazione forse più consistente del mio lavoro è infatti quella che si innesca al momento della realizzazione delle immagini o ancor più nel tempo della conoscenza (di persone, luoghi o situazioni) che precede gli scatti. E devo ammettere che questo è anche uno degli aspetti che più apprezzo dell'essere fotografa.
M.C. - Hai svolto un lavoro su un corpo di fabbrica torinese che era "abitato" dai Rom credo, e ora abbattuto. Quindi indagine tra struttura urbana, habitat urbano, e relazioni sociali, discriminazioni, moti dell'animo esistenziali e malesseri collettivi.
F.C. - I temi che hai iniziato ad elencare sono proprio quelli che sorreggono questo mio progetto, che si intitola "La fabbrica è piena_Habitat" (...vedo che anche tu hai usato la stessa parola). La serie fotografica fa parte in realtà di un progetto più ampio, composto anche da un film documentario di cui ho curato la direzione della fotografia, ("La fabbrica è piena. Tragicomedìa in otto atti") per la regia di Irene Dionisio, ed una video installazione, declinazioni diverse di varie riflessioni sullo stesso soggetto. Il progetto fotografico in particolare si organizza intorno alle "camere", alle nicchie d'intimità che alcuni rumeni senza tetto e senza lavoro si sono ritagliati all'interno degli enormi spazi di una fabbrica FIAT abbandonata e adesso demolita, quindi si tratta d'immagini di spazi ed alcuni ritratti. Hai colto perfettamente i nodi che mi, e ci, stavano a cuore e che ci hanno spinto a realizzare questo progetto (impegnativo in termini di mole e tempo di lavoro, ma anche e soprattutto in termini appunto di impegno personale, psicologico e relazionale). Osservare spazi è un primo input per iniziare una catena di riflessioni che si ricollegano da un lato alla storia della città di Torino, dove vivo attualmente, in generale alla storia del sistema fabbrica e del capitalismo, e dall'altro alla situazione attuale di crisi del mondo del lavoro e a tutti i problemi legati alla migrazione, alla disoccupazione, alla gestione degli spazi della città.... Insomma, vari livelli di significato che si sommano e si stratificano, storie che si rendono complesse ed interconnesse, possibili letture ed interpretazioni, domande aperte che rivolgo a me e agli altri, situazioni che riflettono sia una condizione esistenziale personale che una condizione di incertezza condivisa da tutti noi.