Descrizione Opera / Biografia
Descrizione: Fotogramma dei serpenti cari a San Domenico di Cocullo (AQ)
Biografia:
Il mio primo approccio con la fotografia l’ho
avuto da bambino-ragazzino, quando smontai la ve-tusta Ferrania di mio padre, per “vedere” come facessero a muoversi, così velocemente, le lamelle dell’otturatore. Rimediai soltanto una “raffica” di schiaffi, a tutta “apertura di mano”, velocità 1/500” che mi “impressionarono” moltissimo e “sviluppai” subito una sorta di timorosa indifferenza per la fotografia.
Cercai un timido riscatto, in occasione di un matrimonio, con una “Mamiya 16 Automatic”, una compatta giapponese che, secondo chi me l’aveva venduta, le foto le faceva da sola! Fu un mezzo disastro perché le immagini erano sfocate, tagliate, insomma inservibili.
Poiché il matrimonio, di cui sopra, era il mio, giurai che non avrei più toccato una macchina fotografica: piuttosto mi tagliavo le mani!
Tuttavia, divenni un involontario... spergiuro
quando mia moglie, ovviamente all’oscuro dei miei
impegni morali, in occasione del secondo anniver-sario di nozze, mi regalò una Voigtlander Vito CLR, fotocamera tedesca modernissima per quei tempi, con tanto di custodia in pelle!
La presi in mano, lessi le istruzioni senza capirci un granchè, la aprii cautamente e decisi che l’avrei fatta vedere a Bruno Sebastiani, tanto
ormai ce l’avevo e quindi la dovevo pur usare!
Tra l’altro, Fiorella ci sarebbe rimasta male se non l’avessi fatto! Sebastiani, mi regalò un rullino, mi fece vedere come si montava e: «Non stare ad impazzirti con l’esposimetro automatico, usa il 125/11 quando c’è il sole e la pellicola da 400 quando c’è poca luce. Capito»!
Capii o, meglio, ritenni così e mi diedi da fare, seguendo il mio istinto per i soggetti e le inquadrature. Notai – con sorpresa – che le foto stampate, tutto sommato, erano passabili! Conti-nuarono ad esserle, in bianco e nero, od a colori, nei numerosi viaggi di lavoro, in giro per il mondo, nella vita quotidiana e di società: quando ritenevo necessario, insomma.
Tuttavia fotografare, per me, era come lavorare: lo facevo con serietà e produttività, ma senza una vera passione. Se Fiorella, in quell’anniversario di nozze, mi avesse regalato un bel set di pentole, probabilmente mi sarei messo a cucinare, cercando di utilizzarle al meglio, solo per il semplice fatto che erano un regalo di mia moglie, non che mi piacesse cucinare!
Tutto ciò fu confermato, pochi anni dopo, quando portai la macchina fotografica da Sebastiani, per una piccola messa a punto: Bruno la mise in un posto nascosto del suo studio, ma tanto remoto che, quando andarono i ladri e gli portarono via tutte le attrezzature, supponemmo che la mia avesse fatto la stessa fine.
Non la trovò neanche Sebastiani il quale, di-cendomi che gli era stata rubata, mi chiese cosa desiderassi in cambio: feci spallucce e attesi di decidere. Non decisi nulla e non comprai altre macchine fotografiche. Fu come perdere, un vec-chio, lontano, parente: un po’ di rammarico, ma niente dolore.
Dopo un paio d’anni, casualmente, la fotocamera fu ritrovata e restituita, in perfetto ordine; la nascosi, a mia volta, e non l’usai più.
Amore finito, senza appello.
Questa fu la decisione, e non la cambiai, per moltissimi anni.
Tuttavia, i semi dell’inconscia passione, piantati dalla sorte negli anni sessanta, erano ancora nascosti e furono stimolati dalla visione di una bellissima Nikon, esposta da Sebastiani.
Entrai nel negozio, ne chiesi il prezzo e la presi in mano. Fu quasi un contatto erotico: ne fui turbato e, nello stesso tempo, profondamente conquistato! Mi resi anche conto che l’istinto mi “imponeva” di comprarla: lo feci subito, nonostante gli immotivati propositi di stare lontano dalla fotografia e, subito, mi accadde di ripensare a tutto il tempo perduto.
La portai a casa e mi imposi di non toccarla, poiché non volevo che il giorno dopo fossi co-stretto a ricambiare idea, precludendomi anche la possibilità di restituirla!
La toccai, e come! Detti una prima scorsa al libretto di istruzioni, che fu presto ridotto ad una serie di foglietti con decine e decine di se-gnalibro, nelle pagine più consultate. Poi iniziai a scattare...e non ho ancora finito, anche se ora lo faccio soltanto se qualcosa “scatta” dentro di me: praticamente è il mio cervello che sceglie il soggetto, e la fotocamera convalida la sensazione che le trasmetto, in punta di dito!
Ho fotografato di tutto, senza un ordine pre-ciso, ed ho consumato diverse centinaia di rullini che, all’inizio, ho sempre fatto sviluppare e stampare da Pasquale, (se la memoria non mi inganna), il bravo tecnico di Sebastiani. Aspettavo i risultati con ansia come se fossero le foto di Ansel Adams, il mago americano del bianco e nero. Negli anni che seguirono quel periodo, ho spesso rivisto (e scartato) quelle immagini che – al momento – mi sembravano dei piccoli capolavori! Soprattutto quando cominciai a sviluppare, e stampare da solo.
Ma andiamo per ordine.
Un giorno, mentre passavo davanti al negozio di Dario Giampaolo, nella stessa via Genova dove abito, mi vide con la Nikon e, siccome ero suo cliente, per lavori di tappezzeria, mi disse: «Non sapevo che fotografassi: io ho la passione del bianco e nero, che sviluppo e stampo nella mia camera oscura, ed esco quasi sempre da solo. Qualche volta mi accompagna Pierino Santomo, ma lui è un po’ pigro. Tu lo conosci? Si? Bene. Ti andrebbe di uscire qualche volta con noi, la Domenica?»
Assentii, parlammo ancora un poco di fotogra-fia e ci demmo appuntamento per la Domenica suc-cessiva, più o meno alle sette. Dissi di si e la mia vita, almeno quella fotografica, cambiò di punto in bianco. Ma non solo quella della fotografia!
Ho un debito di riconoscenza con Dario, perché
mi ha aiutato tantissimo e mi ha spinto a prendere delle decisioni che hanno cambiato il mio modo ingenuo e primitivo di considerare quella mia nuova passione!
Uscimmo presto, quella primissima domenica, Dario con una enorme fotocamera professionale su un adeguato treppiedi, esposimetro, flash, e tanti altri aggeggi, che avrei imparato a conoscere, nel tempo. Certamente, io e Pierino sembravano...nudi a suo confronto: quest’ultimo, con un moto che mi parve di scontrosa noia, scosse la testa, e si allontanò, però restando nei paraggi, in una campagna di Mosciano.
Capii a volo cosa intendesse con il suo com-portamento quando vidi Dario sistemare quella mezza tonnellata di attrezzatura davanti ad un bellissimo cavolo, che se ne stette ben fermo, mentre il Maestro, con la testa sotto un panno di tela cerata, armeggiava per trovare la giusta esposizione. Sembrava quasi ne aspettasse la crescita! Io e Pierino, in attesa, fotografammo una bella serie di piante, chiedendoci, scherzosamente, che...cavolo andasse cercando Dario. Cosa cercasse, lo vidi paragonando le mie piccole, imperfette, foto con un negativo del cavolo che sembrava un lenzuolo!
Ebbi la sensazione che Dario volesse semplicemente...impressionarci perché, quando gli chiesi se valeva la pena faticare tanto, per una foto che non sapeva cosa farsene, mi disse che io non ancora capivo la soddisfazione che si provava a raggiungere la perfezione!
Comunque, solo raramente, spostò ancora quel carro attrezzi, però si portava sempre dietro un paio di fotocamere, anche su un treppiedi più ma-neggevole, con macchinette 6x6 o 6x9. Erano, co-munque, fotocamere non modernissime, che richiedevano sempre l’esposimetro; a volte avevano dei “dorsi” staccabili, o delle lastrine sfilabili, per poter esporre la pellicola sottostante. Tuttavia, bisognava avere una memoria ferrea per non dimenticare la giusta sequenza dei passaggi, altrimenti saltava la foto!
In ogni caso, come tutte le malattie, anche quella divenne contagiosa: comprai anch’io, nel tempo, delle fotocamere adatte a pellicole 6x9 che, con piastrine ridotte, si potevano ridurre al 6x7 o 6x6. Indubbiamente, i negativi cosi grandi – con un gran numero di informazioni in più – ti davano delle immagini più estese e leggibili.
Avevamo preso l’abitudine, noi tre fotografi erranti, di andare anche in giro con leggeri car-relli della spesa, per portarci tutto quel peso. All’infuori di Pierino Santomo che, più intelli-gente, o sfaticato di noi, riferendosi ai nostri scatti, ci prendeva in giro chiamandoci “raffica” e “mitraglia”! Ma su questo si sbagliava di grosso perché con pochi scatti, c’era maggior rischio di errori e perdita di occasioni irripetibili. Ricordo bene che un noto fotografo americano, per vincere un concorso sulla natura, aveva fatto più di mille foto dello stesso uccello!
Con loro due, ho diviso tanto tempo libero, con partenze mattutine impossibili, per poter avere le migliori condizioni di luce, quando arrivavamo sui posti prefissati: infatti tutti i fotografi, siano essi professionisti o dilettanti, sanno che le ore del primo mattino, e quelle del tardo pomeriggio, sono le migliori per fotografare!
Quando Pierino era indisponibile, di Domenica e, comunque, quando avevamo tempo libero, io e Dario partivamo prestissimo, in macchina, e raggiungevamo i luoghi di “caccia” carichi come somari e sempre fiduciosi di prendere...buona selvaggina. A volte accadeva, altre volte dovevamo fuggire perché il tempo, senza nessun preavviso, si metteva a fare i capricci. Comunque, bene o male, tornavamo sempre con il...carniere pieno!
Dario sviluppava e stampava da solo, io mi avvalevo di Pasquale e dovevo sempre aspettare un paio di giorni. Mettevamo a confronto i risultati e Dario, ovviamente, prevaleva. Ma io imparavo, ed
anche presto, perché sono un fautore del: grazie, ma so sbagliare da me! Ed anche del seguito: per-ché cerco di non farlo più! L’origine di questi concetti è dubbia ma, per me, sempre valida. Anche
nella vita di tutti i giorni.
Questi confronti, comunque, servivano a cre-scere, anche a Dario. Pensate che lui non amava inserire personaggi nelle sue foto, ed io di con-seguenza. Lui fotografava i cavoli, o i finocchi, ed io di conseguenza. Lui non tollerava che le sue foto avessero del movimento, ed io di conseguenza. Cominciammo a cambiare, insieme, forse lentamente, ma progressivamente: per tutti e due una foto di una strada di campagna, “senza” un bel vecchio contadino, che – magari – si portava dietro una bella mucca, non aveva più alcun senso.
E così per tante altre cose di fotografia, perché essa è un ricordo di vita e non va cambia-ta.
Anche quando non andavamo a fotografare, con Dario mi incontravo spesso, davanti, o nel suo negozio. Parlavamo di foto ma anche di fotocamere che avremmo desiderato e, qualcosa facemmo insie-me. Per me, indipendentemente, dall’amicizia e dai comuni interessi, era come andare a scuola.
Certamente, ero migliorato, ma avevo ancora molto da imparare: chi vuol farlo, chiede. Ed io, chie-devo e condividevo.
Mi domandavo, spesso, come avevo fatto senza la fotografia! Quanti anni perduti, dal 1964! Quasi venti! Dovevo assolutamente recuperare il tempo perduto! Cominciai a comprare libri e riviste del settore, evidenziando tutto ciò che mi sarebbe potuto servire, in seguito. Ma si impara sul campo e non tralasciammo occasioni per farlo, anche al limite dell’assurdo. Una delle zone preferite da noi era il Gran Sasso, soprattutto le zone di Campo Imperatore, Fonte Vetica e le strade che vi si dipartono, per raggiungere Santo Stefano di Sessanio, Castel del Monte ed anche Castelli, scendendo da nord.
Bellissima zona, preferibilmente nei mesi da primavera ad autunno. D’inverno, però sono cavoli amari perché la strada viene bloccata, alla sta-zione di partenza della funivia per Campo Impera-tore, fino a diversi chilometri dopo.
Pertanto, la zona in cui fotografavamo, era interdetta, salvo farlo di contrabbando, cioè spostando le transenne che bloccavano il passaggio. Così facevamo, a nostro rischio e pericolo. Lo facemmo anche quel giorno di Dicembre, parzialmente nuvoloso, carichi di borsoni, borsette e attrezzatura varia. Ci fermammo vicino a quel laghetto, a destra, sulla strada per Campo Imperatore, dove andavano ad abbeverarsi, a turno, pecore, cavalli, mucche, ed altri animali che, tanti appassionati come noi, fotografavano con lo sfondo del Corno Grande, vicinissimo. Montammo i treppiedi, sulla collinetta che sovrastava il lago, fissammo le fotocamere, con tutte le attrezzature intorno, a portata di mano; ci armammo di pazienza e ci met-temmo in attesa delle buone occasioni. Queste si materializzarono, quando eravamo già parzialmente congelati per un vento freddo che tirava da sud, e non ci accorgemmo che il cielo era diventato grigio e nell’aria danzavano dei rari fiocchi di neve. Quando i fiocchi si moltiplicarono con preoccupante intensità, ci guardammo, e Dario fece cenno che dovevamo scappare: lo facemmo, prendendo tutto ciò che c’era da prendere, caricandolo sulla sua Citroen, e cominciammo a scendere dalla montagna. Man mano che lo facevamo, il tempo si schiariva ed un pallido sole faceva capolino dalle nuvole che, verso la montagna, però, erano molto scure. Arrivammo davanti casa mia, verso le 12,45 e scaricai la roba: rovistai da tutte le parti ma non trovai il borsone con gli obbiettivi della Pentax 6x9! Mi venne un colpo perché lo avevo lasciato vicino al laghetto e, nella fretta, avevo dimenticato di riprenderlo. E adesso? Lo feci presente a Dario che disse : «Dobbiamo ritornare su immediatamente, se non vuoi perdere tutto!» Stavo per obiettare qualcosa, ma lui mi spinse in auto e ripartì, di volata!
Per strada fu tutto un “li ritroviamo” di Da-rio, ed un “non li ritroviamo” del sottoscritto, sempre con uno scaramantico spirito di contraddi-zione. Quell’imprevisto viaggio, fu uno dei più lunghi della mia vita, anche perché, verso la fi-ne, ritrovammo la neve: poca ma quasi ghiacciata per il fortissimo vento dal quale eravamo fuggiti. Era ghiacciato anche il laghetto al centro del quale c’era il visore della 6x9, ben incastonato, come se galleggiasse: non era un buon segno!
Salii sul dosso e non vidi nulla. Mi gelai, più dell’aria che mi veniva addosso e poi, come una splendida visione, vidi per terra uno degli obbiettivi, più avanti ce n’era un altro e, ancora più giù, quasi sulla riva, il terzo!
Nessuna traccia, del borsone. Sicuramente era stato portato via dal vento, chissà dove, però a-veva benevolmente rilasciato gli obbiettivi! Rin-graziai “Chi” di dovere, ed anche Dario che aveva insistito per tornare su. Ora l’unico problema era il visore che continuava a restare sull’acqua, praticamente irraggiungibile, se non volevamo fare un bagno fuori stagione, anche con il rischio di sprofondare nella mota!
«Ci torniamo domani mattina, se il tempo ce lo permette, con dei bastoni, o qualcos’altro. Ci pensiamo stanotte. Adesso torniamo giù, altrimenti
congeliamo anche noi.» Non ebbi nulla da obietta-re sulla proposta di Dario!
La mattina dopo, armati di diversi pezzi di travicelli di abete, tornammo a Campo Imperatore.
Il visore era ancora al centro del laghetto, per-fettamente ghiacciato, e ci demmo da fare, con quei lunghi pezzi di legno. Ma, anche se uniti insieme, non erano lunghi abbastanza. Tentammo per più di un’ora, riuscimmo a toccare il nostro obbiettivo, ma non si mosse di un centimetro. Poi mi venne un...lampo di genio, mi diedi del cretino per non averci pensato prima e mi sarei buttato veramente nel lago: a casa avevo un bel canotto di gomma che sarebbe stato la soluzione del problema!
Il giorno dopo, con una tenacia degna di altre imprese tornai in montagna, da solo, per la terza volta di seguito, con un anacronistico canotto di gomma, legato al portabagagli della mia Renault. Non lo slegai nemmeno, perché il ghiaccio si era sciolto ed il mio bel visore era affondato. Non l’ho riferito nemmeno a Dario questo tentativo: lo saprà solo se, e quando, leggerà questo libro!
Abbiamo girato quasi tutto l’Abruzzo, con fo-tocamere più leggere e senza pesi inutili. Abbiamo le foto di luoghi che non ci sono più o che sono mutati radicalmente: ricordiamo i veri pastori che si recavano al raduno annuale di Fonte Vetica, nella piana di Campo Imperatore, attraversando, a piedi, tutto l’Abruzzo. Oggi, le pecore e tutti gli altri ovini, arrivano in camion ed i pastori, la maggior parte, almeno, indossano indumenti di Armani!
In tutti questi anni, noi fotografi dilettan-ti, siamo diventati gli involontari testimoni di luoghi, usi, e costumi che sono mutati, se in me-glio o in peggio, “ai posteri l’ardua sentenza”! Ho un solo rimpianto: non sono mai riuscito a fo-tografare le mie, (nostre), emozioni che ho, (ab-biamo) provato in tantissimi momenti dei nostri pellegrinaggi. Qualcosa, però, ha lasciato, nella mia mente, un’impronta indelebile, che sarà vivida e meravigliosa, fino a ...che sarà possibile! Cercherò di rendervi partecipi, se avrete la costanza di leggere oltre.
Il 5 Agosto di ogni anno, si tiene in località
Fonte Vetica, di Campo Imperatore, la Festa del Pastore, un qualcosa che merita, ancora, di essere
visto. Io e Dario, vi abbiamo partecipato fin dal primo anno del nostro sodalizio, e siamo diventati anche noi una piccola parte di quelle tradizioni, sane, genuine e piene di fascino.
Quell’anno, in particolare, partimmo da Giu-lianova alle 2,30 del mattino, per poter fotogra-fare le pecore, pastori in testa, che da ogni parte d’Abruzzo, si recavano a piedi, fino al luogo di raccolta. Era bellissimo fotografare le greggi ed i loro pittoreschi pastori, con il flash, nel buio profondo di quella strada: ho tante immagini di pecore, con gli occhi che riverberano la forte, improvvisa luminosità; sembravano tanti fantasmi!
Quella notte, però, non era ancora arrivato nessuno. Aria leggermente fresca, niente luna, nessuna luce, tranne quelle di posizione dell’auto. Alzai gli occhi per seguire la scia di una stella cadente, bellissima: rimasi scioccato, non dalla stella cadente, solo effimera, ma da tutte quelle “ferme”, milioni, miliardi di astri di uno splendore che non si può descrivere! Toccai
Dario, gli feci cenno di guardare verso il cielo e
sul volto gli apparve una strana espressione, come
di beatitudine. Spegnemmo tutte le luci e ci sdraiammo in terra, in mezzo all’erba umida, con gli occhi su quella meravigliosa immensità.
Divenni un unico, stupefatto occhio, tutt’uno con la Via Lattea, la nostra Galassia che partiva proprio sulla nostra testa, come una splendida tenda di 100 miliardi di stelle, talmente vicine l’una all’altra che sembrava si toccassero.
Quella “tenda” che partiva dal limite estremo inferiore, praticamente dal Sistema Solare, si protendeva nello spazio, apparentemente verso il nord terrestre, con una stupefacente curva di “latte”, fino a completare una ellisse che, idealmente, si ricongiungeva al punto di “partenza”.
Immaginate il nostro Universo così come raffigurato, con 500 miliardi di galassie, tante “piccole” ellissi luminose “galleggianti” in uno spazio di quasi 15 miliardi di anni luce, e cioè dal Big Bang! Noi, terrestri, viviamo ai confini inferiori, esterni, della Via Lattea, e siamo del tutto insignificanti, nonostante tutta la presunzione che dimostriamo.
Eravamo sdraiati proprio in quella “periferia” ed io, almeno, mi chiedevo CHI o COSA avesse creato quello che ci circondava e consideravo la nostra incommensurabile nullità. Tuttavia, c’eravamo e, se c’eravamo, doveva pur esserci una ragione. Tuttavia, mi rifiutavo, e mi rifiuto, di credere che siamo solo frutto della “casualità”.
Non so quanto tempo saremmo rimasti avvinti da
quello spettacolo, se un insistente belare non ci avesse distratto: quelle pecore erano già passate, ma ci accorgemmo che non avevamo perso nulla in confronto a quanto ci era stato concesso di vedere! E pensare che quello spettacolo c’è tutte le notti, ci viviamo dentro, ma ne siamo stoltamente privati dai benefici della cosidetta civiltà!
Riprendemmo la macchina e, prima di arrivare a destinazione, ci trovammo a metà strada, un lunghissimo tratto con, in fondo, la luce di una splendida alba e, tutti e due, nello stesso iden-tico momento, commentammo: sembra la scena del film “incontri ravvicinati del terzo tipo”. Non ci restò che metterci a ridere, nello stesso momento.
Ci tornammo, negli anni successivi, ma senza fortuna, evidentemente avevamo avuto tutto ciò che
ci spettava, in quel campo!
Ci tornammo, in altri inverni, in quella zona, sempre di contrabbando, e fummo bloccati da una improvvisa tempesta di neve. Eravamo fermi, all’inizio di un’erta salita, aspettando il...disgelo, quando udimmo un forte rumore, smorzato, di potenti motori. Ci guardammo, io e Dario, consapevoli che stava arrivando uno spazzaneve, notammo a sinistra, una duna di neve e, apriti cielo, due meravigliose, bianche volpi delle nevi che la risalivano, con armoniosi saltelli. Cercammo di afferrare le fotocamere, per fotografarle ma, loro, furono molto più veloci di noi. Però io fui altrettanto veloce, con la lingua, quando il guidatore dello spazzaneve, ci contestò la presenza su una strada interdetta, ed io gli risposi: se è così – e non dovrebbe esserci nessuno - voi che cosa ci fate? Si fece una bella risata, mi guardò bene e disse:« Facciamo pure lo spiritoso? Ora mi prendo il numero di targa e la prossima volta che vi trovo qui, ve la faccio sequestrare, ok?» Ri-sposi ok e stavo per dirgli che ci venivo con un’altra macchina ma pensai fosse meglio stare zitto. Ci rimorchiarono, fino a superare la sali-ta, e ce ne andammo, molto prudentemente!
Comunque, io e Dario, abbiamo ricordato foto-graficamente, altre celebrazioni annuali, oltre quelle di Fonte Vetica, che hanno riempito i no-stri archivi fotografici di ricordi che potrebbero
anche avere un valore storico, considerato che tutto muta, (in meglio o in peggio, lasciamo ai posteri l’ ardua sentenza, quando – solitamente – non si vuole, o non si può esprimere un parere).
Parliamo, prima, del Festival dei Due Mondi, se non ricordo male, che si teneva a Corropoli, in estate, e riuniva – ogni anno diverso dall’altro – le migliori bande, orchestre, folclore, del mondo intero. Per noi “fotografi”, buoni o cattivi che fossimo, era una festa del colore che ci dovevamo conquistare, nel vero senso della parola, considerando che una buona fotografia, oltre al resto, deve essere scattata da una buona posizione. Era una cosa bellissima, come alcune immagini fortunate! Oggi, e da diversi anni, è tutto finito!
Parliamo, ora, di Cocullo e della Festa dei Serpari! I primi di Maggio, di tutti gli anni, facevamo le corse per assicurarci i luoghi dove passava la processione di San Domenico, con i serpenti aggrovigliati sulla testa, ma avevano un inestimabile valore fotografico, soprattutto i genuini “personaggi” che si mischiavano, e mimetizzavano, tra una folla in continuo movimento. Era una faticaccia, ma spesso, i risultati erano spettacolari. Anche a Cocullo, dopo il terremoto ed anche in conseguenza della “civilizzazione”, è sempre più difficile ottenere buoni risultati.
Diciamo, onestamente, che non aiuta neppure la...mancanza di giovinezza!
Ma la pazzia fotografica, benevolmente parlando, la facemmo, io e Dario, quando decidemmo di fotografare il carnevale di Venezia, diversi anni orsono. Due o tre macchine fotografiche, i flash, gli esposimetri e centinaia di rullini, a colori o in bianco e nero, portati a spasso dalla mattina presto e fino a pomeriggio inoltrato, (ed anche qualche battutina notturna), con breve sosta per il pranzo: 15 minuti ad un Macdonald. C’era da impazzire per tutto quello che si poteva fotografare e noi due impazzimmo! Io scattai quasi milletrenta foto ed altrettante, se non di più, Dario. La sera, in un piccolo albergo strategicamente posizionato, si può dire che a malapena ci spogliavamo, per una stanchezza che ti spezzava le gambe. Per tre giorni, analizzammo ed immortalammo Venezia, quasi dappertutto, ma non avemmo mai un senso di pentimento, soprattutto dopo aver visionato i no-stri...capolavori. Sono stato altre volte a Vene-zia, ma il senso di libertà totale, provato in quei giorni, non l’ho mai più avuto: grazie foto-grafia, grazie Dario e grazie anche ad...Ennio!
Presi anche un altro contagio, e sempre da Dario: la camera oscura! Non guarii neppure questa volta perché la “malattia” richiedeva un lungo, ed anche costoso, ricovero. Uno dei “medici” che mi curò, oltre Dario, fu l’amico Marino Durante che, come tantissimi ricorderanno, aveva uno studio fotografico in Via Thaon De Revel. Era un bravissimo fotografo professionista, nonché eccezionale stampatore, e “fornitore” di tanti, preziosi, consigli. Gli esposi la mia malattia e mi disse che avrei dovuto curarla perché – secondo lui – avevo un buon talento fotografico ed una sensibilità che non poteva essere “bruciata” – disse proprio così – da uno stampatore qualsiasi.
Mi disse anche che aveva smesso di stampare perché: «Anch’io non volevo essere “bruciato” dalla mia concorrenza che mi ha tagliato fuori per i prezzi ridicoli che pratica e, a quelle condizioni, si possono consegnare solo porcherie. Tanto la “gente”, non ne capisce niente, e così si merita. Senti Ennio, non pensare che io voglia cogliere l’occasione per rifilarti la mia attrezzatura che qualcuno – per la verità – mi ha già chiesto di comprare, ma io preferirei venderla ad un vero appassionato. Ti assicuro che per me è come rinunciare a pezzi di vita!»
Ebbi l’impressione di una lacrima che stesse per scendere, e che lui fermò con una brusca mossa della mano destra. Ne rimasi turbato e gli chiesi qualche giorno per pensarci, visto che non ero ancora sicuro di cosa volessi fare. Lo ringraziai per gli apprezzamenti, lo salutai e – mentre stavo per andar via – mi disse che non avrebbe venduto nulla fino a quando non avessi preso una decisione! Non fu facile prenderla, quella benedetta decisione, per tante ragioni. Non era questione di soldi perché il prezzo che mi aveva chiesto Marino, era abbordabile; costruirla non comportava problemi tecnici, poiché avevo già in mente il progetto completo, ed ero piuttosto portato a tutti i lavori che riguardavano la costruzione, ma ciò che mi angustiava era: DOVE?
Considerai i luoghi più assurdi, ma, infine, l’unica soluzione possibile era quella di usare il garage: la superficie coperta era di circa 45 metri quadrati ed a me ne occorrevano una decina.
Non mi restava che sottoporre le mie esigenze alla...proprietaria dell’immobile, spiegandole ben, bene per cosa mi servivano quei dieci metri quadri (dopotutto sono solo dieci su 45 e farò in modo da non creare intralci: «Tu sai bene che sono
abituato a lasciare tutto in ordine e pulito. Ri-corda tutte le verniciature del salone e delle camere: sei rimasta entusiasta per i complimenti delle tue amiche, e di chiunque le abbia viste. Penso che ti puoi fidare, no?»
Mosse delle obiezioni, sulle premesse, quasi ricattatorie, e sullo spazio che avrei sottratto ma, alla fine, si fidò!
Finalmente, via libera! Avevo già studiato un “modus operandi” per realizzare ciò che mi frullava nella testa e cominciai a realizzarlo, togliendo di mezzo ogni inciampo. Mi rivolsi ad un cliente dello studio che trattava legname e tramutai in travi, tavole, listelli, ripiani, e tanto altro, un congruo acconto sulle mie parcelle maturate, e mai pagate. Praticamente un semplice esempio di come utilizzare crediti sospesi, con remote possibilità di incasso! Evviva il baratto!
Un altro cliente debitore pagò le fatture so-spese, con materiale elettrico, di ogni genere; tante belle mattonelle in sughero, ceramica, ecc. furono felici di arredare il mio laboratorio, allo stesso...costo mentre, per la tinteggiatura, attinsi alle scorte di famiglia!
Per una quindicina di giorni, dentro e fuori il garage, ci fu un traffico, come se stessi co-struendo un mezzo grattacielo! Feci tutto da solo, tranne l’impianto dell’acqua che fu collegato ad uno scaldabagno, dal buon amico Vincenzo “Cimino”, re degli idraulici. Costruii anche un impianto di scarico delle acque di lavaggio, montai una porta di recupero e mi trovai felice proprietario di una magnifica camera oscura. A sinistra dell’entrata, c’era tutta la parte “bagnata” con un adeguato, bel lavandino in acciaio inox, sormontato da una vasca di lavaggio che avevo progettato e fatta costruire da amici; di seguito, lo spazio per tre vaschette di plastica, adatte alla misura della carta che volevo stampare; sulla parete di fondo, le carte di diversa misura, e buona parte degli accessori, mentre, sul lato destro (la parte “a-sciutta”), al centro andava posto l’ingranditore, il timer, uno scaffale economico in ferro e, sem-pre di seguito, un asciugatore elettrico, verticale, attaccato al muro. Completava la funzionalità del tutto, una lampada rossa sopra le vaschette, un orologio a muro ben visibile e tre lampade, con comando separato. Tutto lo spazio possibile era riempito di ripiani, di varie misure, ricavati sotto il tavolato, ed alcuni appesi al muro, soprattutto negli angoli. Dimenticavo una ventola elettrica posta sulla porta d’ingresso, che estraeva l’aria impura, per respirare un po’ meglio.
Prima di iniziare i...grandi lavori, avevo confermato a Marino l’acquisto dell’ingranditore ed ora, che sembrava fosse tutto pronto, attendevo con ansia la mia creatura.
Ci andai i giorno dopo e mi portai a casa un DURST M 800, con testa colore a parte, tre o quattro obbiettivi, di aperture diverse, due con-densatori, due timer ed una quantità enorme di preziosi accessori, messi insieme in una vita di lavoro e passione. Pensate: era motorizzata finanche la testa porta obbiettivi (e lo è ancora, insieme a tutto il resto: per me sono come reliquie, da curare ed adorare).
Ovviamente, anche se con motivazioni diverse ma lo stesso scopo, fui aiutato a prendere confi-denza con l’attrezzatura, tutte le regole, diverse per i vari tipi di materiali di sviluppo, le pellicole, i tempi e così via. Riempii le pareti del laboratorio con tutte le regole per lo sviluppo delle varie pellicole, per le tante carte fotografiche e tutti i “trucchi” del mestiere.
Per indole e per necessità sono sempre stato un allievo desideroso di imparare. Per chi vuole farlo velocemente, è indispensabile un’altra qua-lità essenziale: l’ordine ed anche un certo amor proprio. Con sorpresa di molti, ho imparato molto presto ed ho avuto i sinceri rallegramenti per le prime stampe e per l’ordine e la razionalità della camera oscura.
Ci passai giornate intere (ed anche nottate) in quei pochi metri quadrati, nella luce rossa, ma
non potete immaginare cosa significasse veder ap-parire nel liquido di sviluppo, i soggetti delle foto, così come avevi deciso che fossero, con tutta la libertà di un dio creatore!
Certamente, ho provato anche le mie delusio-ni, ma dovute alla fretta di far presto! Dimenticavo un’altra qualità, valida per tutte le cose della vita: la calma e la pazienza!
Vi è stato anche il periodo delle mostre, e dei concorsi fotografici; nulla di eclatante ma – come dicono i napoletani: “ogni scarrafone è bell’a mamma sojia”.
Partecipai a quella dell’Aprile 1998, insieme a Dario, e altri, nella cripta del Duomo.
La sala Trevisan, ha ospitato Giulianova in bianco e nero, il 17 Febbraio 2012, e La festa dei serpari a Cocullo, il 7 Aprile, con un buon successo di pubblico, mi pare. Nel 2014, in concomitanza con la Festa del 22 Aprile, nel sottobelvedere di Giulianova Paese, ho esposto Clic di Emozioni, con una notevole presenza di visitatori e un indice di totale gradimento!
Ci sono stati anche dei concorsi fotografici, certamente nell’ambito locale ma, sinceramente, non ho mai avuto velleità di grande fotografo.
Tuttavia, ho vinto il 1° premio, in bianco e nero, nell’Agosto 2002 della Madonna del Portosalvo, nonché quello dell’anno 2003.
Nell’Aprile 2004, in occasione della Festa della Madonna dello Splendore, ho vinto il 1° e 6° premio del Trofeo Photomarket ed ho avuto riconoscimenti, in diverse altre occasioni.
Ho catalogato oltre 35.000 fotografie e, non ho intenzione di fermarmi, salvo Ordini Superiori.
Oggi, ho abbandonato le macchine di medio e grande formato e mi diletto con una compatta, con un obbiettivo Leica, ed un più che adeguato tele, che mi permette di arrivare bel oltre il necessa-rio. Seguo il mio istinto, mi fido della mia fotocamera che mi permette di curare inquadrature e tempi di posa, senza preoccuparmi. La porto sempre
in tasca e passeggia con me, soprattutto sul porto
dove, da tanto tempo, faccio parte del paesaggio.
Qualche volta, mi fermano, magari chiedendomi qualche stampa degli anni ’60, fatta proprio con la macchinetta che mi regalò mia moglie e che io ho ancora e tratto come una vecchia amica!
Qualcuno, un po’ intrigante, mi chiede perché vado in giro sempre da solo. Non sono solo - ri-spondo - ho più di trentacinquemila figli, li ricordo uno ad uno e, talvolta, ci parlo anche!
Prima che il mio interlocutore riprenda la parola, mi sono già allontanato in fretta: voglio rivedere qualcuna delle mie creature!
Sono passati tanti anni da quando mi lasciai se-durre dalla fotografia e molte cose sono mutate: se in meglio o in peggio, non voglio giudicare.
Per quanto mi riguarda, la fotografia è stata la mia seconda “compagna”: ora non è più giovane e vivace, come agli inizi, ma io la amo ancora, e non smetterò mai di farlo.
Lei mi ha fatto conoscere tanta gente, tra cui diversi amici, che rimpiango molto: Pierino Santomo, forse si trova tra quelle stelle che ci stregarono quel 5 Agosto, di un “anno luce” fa.
Io e Dario siamo sempre amici, anche se il filo che ci univa è diventato molto sottile. Pur-troppo, gli anni non sono appassionati di fotografia. Anche Marino Durante, non c’è più e mi è venuto a mancare quell’incitamento a cui, tanto tenevo. Spero, ovunque si trovi, sia felice come quando visionavamo, per ore e giorni, tutte le foto che dovevano impressionare il...mondo. Grazie Marino! Anche per avermi consentito, più per amicizia, che interesse, le emozioni che ho provato tra le magie della camera oscura.
Oggi, essa è priva di vita e sono triste ogni volta che vi entro. Ho ancora tutto, e non mi sono liberato di nulla, comprese quelle meravigliose carte che abbiamo amato. Non mi sono liberato neppure delle tante giornate, e nottate di entusiasmi
ed anche di delusioni, certo, ma tutto serve per crescere.
Vi ho portato la mia nipotina Giulia, lì den-tro, ho spiegato le magie che vi si praticavano, e le ho fatto vedere il risultato di quelle alchimie: mi ha guardato negli occhi, incredula e con il dubbio che la stessi prendendo in giro.
Poi ha compreso il rimpianto che scaturiva dalle mie parole, mi ha abbracciato, e ha detto: «E’ un dolore quello che stai provando, vero non-no?»